I Ricordi di zia Maria
capitolo 1
Quando avevo 15 anni abitavo sopra una montagna, i miei genitori coltivavano ulivi, per scendere al paese ci volevano 15 minuti per scendere e mezz’ora per salire. A quei tembi del 1943 non avevamo tante risorse e quel paio di scarpe che si avevano si dovevano risparmiare, se no per la montagna con tante pietre non duravano niente. Si scendeva scalzi e giù, arrivata a una casa che ci abitava gente conosciuta, con la fontana fuori mi lavavo i piedi, mi mettevo le scarpe e andavo in paese, per andare a messa la domenica, e altri giorni per fare qualche spesa per la mia famiglia.
In quei tembi nei miei penzieri di 15 anni, fra i tanti che in quell’età si fanno, c’era pure il penziero che abbitando così scomoda nessun ragazzo si sarebbe innamorato di me, era troppo sacrificio, chi sa se mi sposerò. Invece vicino al mio monticello di ulivi ce n’era un altro che lo lavorava un’altra famiglia, non ci abitavano, venivano solo a lavorarlo. Di questa famiglia c’era un ragazzo un poco più grande di me, si innamorò di me e fece questo sacrificio per più di due anni venendo 2 o 3 volte la settimana.
Arrivò il giorno che ci sposammo, era nel 1948. Andammo ad abitare in paese, quasi al centro, in una casetta poco lontana da un ruscello che si chiamava Torano. A quei tembi i genitori aiutavano e un poco quelli dell’uomo, un poco quelli della donna, si combravano i mobili e si metteva su casa. Era un bel pezzetto di terra, lo coltivavamo con diversi ortaggi. Si viveva così, senza troppe pretese, ci si accontentava con poco.
Eravamo felici e aspettavamo un figlio. Una sera, ci mancavano pochi giorni a 9 mesi – stavo bene, tanto che mai mi visitò un ginecoloco – mio marito mi disse: «Marì, vogliamo andare in cambagna?»
A due o tre chilometri abbitava la sua famiglia, ci aveva amici. Spesso giocavano a carte, le sere d’inverno era l’unico spasso.
«Andiamo.»
Andammo. Si camminava a piedi, a quei tembi non c’erano altri mezzi, nel mio paese si contavano le macchine, o si o no ce n’erano una diecina.
Dopo due o tre ore ce ne siamo tornati a casa e ci siamo messi a letto. Dopo un poco mi sono ingomingiata a sentir male. Ho chiamato mio marito, gli ho detto: «Non mi sento bene.»
Subito è andato a chiamare la signora che prendeva i bambini, fortuna che non abbitava tanto lontano. Gli disse a mio marito: «A me mi sembra che è un poco prima, noi l’aspettiamo a gennaio, ora stiamo al 27 dicembre.» La signora le disse: «Allora ci vuole un medico.» Andò da sua madre, pure, per consigliarsi.
Appena misero i piedi nella cucina, si stava facendo giorno, un ultimo dolore. Nacque nel letto senza preparare niente, si può immaginare quello che passò! Subito venne la levadrice, si preparò un poco d’acqua calda, si lavò bambina, a me, si cambiarono il letto. Una bellissima bambina con tanti capelli, la chiamammo Giovanna come la nonna paterna. Era buona, dormiva tanto, molte volte la dovevo svegliare per mangiare. Si cresceva una meraviglia, eravamo tanto contenti.
Fin quando un giorno è venuta una pioggia torrenziale, il ruscello quasi si tracimò. Con una bambina di pochi mesi, ci mettemmo tanta paura. Mio marito non volle più stare là, prendemmo le nostre cose e andammo a vivere con i genitori di mio marito, però non era la nostra intenzione di stare con loro pure perché tanto spazio non c’era.
Mio marito ci aveva una sorella che era poco stava emicrata in Argentina, in quel tembo dopo la guerra fu la prima emicrazione. Si poteva andare con l’atto di richiamo. Questo paese era comandato da Peron ed Evita. Mio marito mi disse: «Ora me ne vado pure io.»
A me non tanto mi piaceva, pure perché se ne doveva andare da solo, erano appena otto mesi che ci eravamo sposati, la bambina era piccola subito doveva restare senza vedere il padre chi sa per quanto tembo. La decisione si era presa. Se ne andò col biglietto di viaggio di debito, poi là il lavoro ce n’era.
Mi mandava qualcosa ogni mese, saldai il debito però passarono due anni e più. Mi scriveva, non tanto spesso perché stava da solo, si doveva fare da mangiare, lavarsi qualche roba e andare a lavorare, tanto tembo non ce ne aveva, però mi mandava a dire: «Quà non tanto mi piace, quasi me ne voglio ritornare.» Io gli risposi: «Tu sai che quà non ci abbiamo la casa, lavoro ancora non se ne trova, fammi venire pure a me, proviamo!»
Così mi fece pure a me l’atto di richiamo. A quei tembi non si viaggiava come ora, liberi. Con la mia bambina dovetti fare tante carte, poi andare a passare una visita a Genova – là c’erano i medici argentini che a gli emigranti le passavano le visite –, dovevamo stare bene di salute, tenere buona contotta e qualcosa in più che ora non ricordo. Si viaggiava con un fascio di documenti.