I Ricordi di zia Maria
capitolo 3
Siccome non si trovavano case, non mi ricordo bene come mio marito ingontrò questo nuovo lavoro che era di fare il guardiano a una casa chinta. Si trattava di una casa scialè che i signorotti argentini ci avevano fuori città per passare il fine settimana con gli amici. Ci stava la casa con tutte le comodità per loro mentre la nostra stava un poco più distante, una stanzetta piccolina e un’altra pure piccolina, una la stanza da letto e una la cucina, più in là un bagno solo con un buco, non ci si poteva neanche sedere. Ci avevamo una vacca, un cavalluccio, si chiamava Poni, un cane legato e un gallinaio con quasi cento galline. La sera quando si andava a dormire ci mangiavano le zanzare, erano una specie piccoline, si chiamavano moschigli. Che cambio, no? Peggio di come stavo in Italia.
Intanto io rimbiangevo ogni giorno la mia casetta vicino al ruscello del mio paese. Però eravamo giovani, ci dovevamo abbituare alla nuova vita in un nuovo paese dove ci sono le strade larghe e le casette piccole, perché grandi non si potevano fare, non c’era possibilità. Però nel centro della città ci sono pure qualche crattacielo, no come l’America del nord, qualcuno ce n’è pure nell’America del sud. Mio padre quando mi salutò che me ne partivo per l’America mi disse: «Figlia mia, ti auguro buona fortuna, però stai andando a un’America poverella!» Aveva ragione.
Così il mio sogno di cambiare vita svanì. Cambiò solo che nel mio paese appena sposata ci avevo una casetta con mobili nuovi, si doveva passare sopra un ponticello per attraversare il ruscello e stavo in una bella piazza che si chiama piazza Roma, c’erano diversi negozietti, la farmacia, l’ufficio postale, il municipio con le strade buone che non si scivolava; le strade di cambagna erano con tanta vreccia e sassolini che quando pioveva si lavavano e brillavano, con tante siepi dove a primavera uscivano tanti fiorellini. Mentre in America, dove mi trovavo io, nella mia nuova casa ci avevo un letto, un armadio senza la porta, una culla senza le sbarre, una cucinina a petrolio con un solo fornello, qualche piatto e pentola, col bagno solo un buco. L’acqua c’era un depuratore a mano, la tenevo fuori.
Il nostro padrone era un tetesco sposato con una figlia di calabresi. Ogni tanto, giorni di festa se ne venivano a passarli nel suo scialè fuori città con tanti amici, a volte combravano la carne e la facevano arrostita fuori, a volte si ammazzava qualche vitellino. Passavano la giornata mangiando e bevendo birra. Il giorno dopo mi toccava pulire tutta la casa, si sa, con molta gente si sporcava di più, le tovaglie, gli straccetti, gli strofinacci restavano per me. Li dovevo lavare tutto a mano, a quei tembi non c’erano lavatrici, non mi restavano neanche il sapone, me lo dovevo combrare io. Mio marito con l’orto, gli animali, tener pulite le erbe che crescevano e io con la casa dei signori tenerla in ordine, così si lavorava in due per poco stipendio.
Intanto, che volevi fare?, si tirava a cambare. Stavamo in America, che per andare in città si doveva camminare più di un chilometro con la strada larga sì, però di terra greta, senza una pietra. Quando pioveva si scivolava, mi capitò molte volte di cadere scivolando però ci avevo 24 anni, ero giovane e mi alzavo, non passava nulla. Tutto questo per arrivare a una strada dove passavano i mezzi pubblici che ti portavano nella città, dove molte volte ci si doveva andare per fare combre per la casa per esembio, o andare a messa.
Per dove abbitavo meno male che passava quasi tutti i giorni un carretto con cavalli che vendeva pane, si chiamava La Panificazione Argentina, prendevo il pane, era buono, fresco. Tante volte non tenevo soldi spiccioli, le davo uno più grande e il panettiere mi dava il resto. Mia figlia stava sembre appresso a me. Ai bambini non gli sfugge mai niente. Un giorno mia figlia voleva che gli combravo un giocattolo, io gli dissi: «Mamma non ci a i soldi.» Lei subito: «Quelli che ti ha dato il panettiere ce li hai!»
Questo episodio mi è restato imbresso, mi è piaciuto raccontarlo.