I Ricordi di zia Maria
capitolo 8
In più di venti anni me ne sono passate di cose. Essendo un paese di capitalisti, dove la ricchezza se la dividono tra loro restando le briciole agli operai e ai poveri, l’unica cosa bella che mi è successa è di aver avuti quattro figli tutti belli e inteliggenti. Con un marito lavoratore, io mamma a tembo pieno perché non sono andata mai a lavorare fuori casa, me li sono potuta gotere al massimo.
In una terra tanto lontana non è che si stava male, però neanche tanto bene. In venti anni non si potevano contare i colpi di stato che ogni tanto si facevano. Però ci avevamo la nostra casetta, i nostri figli, c’eravamo abbituati. Si tirava avanti.
La mia prima figlia ci aveva il fitanzato, si sposò prima dei venti anni. Tenne la prima figlia anche lei, che con mio figlio Vittorio si portavano poca differenza di età.
Sorse il broblema che mio marito ingomingiò a stare male. Soffriva di bronchite asmatica. Dove stavamo vivendo ci stava quasi sembre l’umidità al cento per cento, non era posto per la sua malattia, spesso si ammalava e non andava a lavorare. In una città come Buenos Aires, noi stavamo in periferia, se non si lavora non si mangia, non c’è nessun aiuto. Pure perché la fabbrica dove lavorava andava male e licenziò diversi operai, ci capitò pure a lui, meno male che eravamo riuscita a farci una casa così non pagavamo affitto.
In Argentina imbarò l’arte di falegname, avendo lavorato per diversi anni in una fabbrica dove si costruivano frigorifici grandi di legno per i negozi che vendevano la carne, così si mise a lavorare in casa, faceva porte e finestre per gli appartamenti. Stavamo benino, quando prendeva un lavoro si faceva dare l’accondo per combrare il materiale poi a lavoro finito si faceva pagare il lavoro che ci metteva per farlo.
Così siamo andati avanti per diversi anni stando lontani dal proprio paese, per chi soffre di nostalgia non è tanto bello. Fra noi ce lo dicevamo sembre: «Chi sa come sarebbe bello di poter ritornarcene in Italia!» Però tenevamo la nostra casetta, con tanti sacrifici eravamo riusciti a farcela, mentre in Italia non tenevamo niente. Poi giusto si viveva, soldi da parte non ne tenevamo perché l’Argentina è un paese dove l’inflazione è all’ordine del giorno, era solo un penziero che tenevamo di poter ritornare.
Me la vidi un poco male, c’era pure che poco lontano c’era una discarica di rifiuti e ogni tanto la ingentiavano e quel fumo veniva per dove stavamo ad abitare, col venticello che nelle pianure ci sono sembre (l’Argentina è combosta di moltissime pianure). A mio marito ci faceva male quel fumo e si ammalava sembre più spesso. Si cercavamo di andare avanti, ai miei figli del necessario non le facevamo mancare niente.
Tante volte la domenica, quasi sembre, arrivava mia figlia sposata che ci aveva tre figli anche lei. Veniva a trovare i suoi e la famiglia diventava ancora più grante. Il marito di mia figlia era un po’ timito, ogni tanto cambiava lavoro e casa. Si doveva aiutare anche questa figlia, quando potevamo il nostro aiuto ce lo davamo sembre.
In tembo non ricordo molto bene, forse era nel 1958 o 59, il marito di mia figlia lavorava nei mezzi di trasporto. Contuceva i bus, trasportava persone. Diverse volte a posti lontano dalla città lo assaltavano e le levavano il guadagno che faceva. Un giorno arrivò mia figlia a casa piangendo con due sue bambine piccole. Ci disse: «Stamattina è venuta la polizia a casa, di mattino presto, mi hanno messa la casa sotto sopra cercando non so che, non hanno trovato niente però si hanno portato mio marito. Ora non so dove l’hanno portato!»
Si può figurare il nostro spavento! Io quando ero bambina mi mettevo paura di passare davanti a una caserma di carabinieri che c’era nel mio paese, stava poco lontano da casa, col marciapiedi davanti, io andavo a passare a quello di fronte perché avevo paura di passargli davanti! In quell’occasione si doveva aiutare mia figlia, c’era solo quello da fare.
Io e mia figlia con le due bambine, una la dovevamo portare in braccio, non lontano c’era un commissariato, andammo là camminando sotto il sole d’estate. Entravamo dendro, le spiecava l’accatuto mia figlia, ma la polizia non solo non ci rispondeva, ci ignorava proprio. Andavamo a un altro commissariato un poco più lontano, la stessa cosa. Tornammo a casa mia senza sapere niente poi dopo due o tre giorni, per mezzo di un conoscende che era poliziotto, sapemmo dove si trovava. Lo avevano preso di sospetto, perciò lo avevano preso. Dovettimo mettere un avvocato, così dopo poco fu scarcerato. In quei giorni che stava preso gli fecero anche torture, lui ci raccontò.
Un poco questo che passò, un poco che mio marito continuava a star male con la salute, non poteva lavorare, ce la vedemmo un poco nera. Penzavamo di come si poteva fare per ritornarcene, penzavamo che venendo in Italia a l’aria nativa stava meglio.