Citazione

Ricordi del mio ritorno in patria, 1972

I Ricordi di zia Maria
capitolo 11

Quando stavo all’Argentina mi sono sembre tenuta in contatto con la mia famiglia. Una sorella spesso mi scriveva, io le facevo sapere le mie notizie, mi diceva: «Vieni! C’è la casa di mamma, ti metti ad abitare con lei tanto sta sola. Però è che la tiene affittata ora, le diciamo a l’inguilina che la deve lasciare. Sai la mamma soffre di esaurimento, siccome non poteva stare sola sta un poco con noi e la sua casa sta occupata.» Ci stava questa speranza della casa che per tutti è la prima necessità.

Soldi per i viaggi non ci stavano, neanche la speranza di tenerli un giorno. Mettemmo in vendita la casa, passavano i giorni la gente come noi neanche se la poteva combrare. Alla fine un fratello di mio marito che confinava con noi, le case stavano fatte nello stesso terreno, ci conveniva prendersela lui così un poco di soldi teneva, un poco se li fece prestare, ci pagò il viaggio così che una bella casa coi nostri venti anni di sacrifici, stando sembre fra calce, cemento e rena, ci uscì solo il viaggio. Durante gli anni che siamo stati in Argentina la casa si faceva in questo modo: quando si riusciva a tenere un poco di risparmio si combrava il materiale, si faceva a cambio lavoro, mio marito era falegname le faceva porte e finestre a qualche amico muratore e l’amico le faceva le cose di muratore. Così il lavoro di venti anni, perché la casa l’avevamo costruita in venti anni un poco alla volta (era finita dentro: una stanza da pranzo, una cucina, due stanze da letto, un bagno e una baracca dove mio marito lavorava), tutto questo per i viaggi.

Ci preparammo a questo nostro ritorno, mio marito ingomingiò a fare i bauli e le valigie con il legno, se le fece tutte, lavorò tanto, ci dovevamo portare molta roba, quella che tenevamo. Si portò tutti i suoi attrezzi di lavoro, anche un’ingudine così poi non la dovevamo combrare, tornavamo senza soldi.

Tornammo con la nave, eravamo in cingue, potevamo portare quasi un quintale a persona non c’era problema di peso. Partimmo da la nostra casa che ci avevamo fatta con tanti sacrifici. Quando passavamo per la strada per andare a imbarcarci tutti i nostri vicini fuori ci salutavano e piangevano, ci dispiaceva che ce ne andavamo. Le due mie figlie si erano sposate, le dovetti lasciare, mi portai solo tre una di 14, uno di 12, uno di 6 anni. Ingomingiò un’altra tappa della nostra vita. Queste sono le emicrazione: sono diviti-famiglie. 

Arrivammo al porto di Buenos Aires, vedemmo una nave bellissima, grande, la Eugenio C. Era una nave di crociera, salimmo, i parenti sotto che ci salutavano e noi sopra e partita la nave è stato un viaggio di sogno. Siccome eravamo in cingue ci anno data una cabina per noi soli con sei letti a castello, in una stanzetta ce n’erano quattro con armadio e comò e nell’altra due letti, un bagno solo per noi, c’era pure una finestrella che si vedeva il mare.

La mattina ci alzavamo, venivano a fare le pulizie i camerieri, andavamo in coperta c’era la colazione. C’era tanto lusso, noi stavamo nella terza classe e ci stavano tante poltrone di velluto rosso. A pranzo si mangiava con un cameriere che serviva solo tre tavoli. Si mangiava benissimo: primo, seconto, contorni, frutta, una volta il dolce una volta il gelato. Tredici giorni di sogno!

Al pomeriggio si poteva vedere un film, c’era la sala dove si facevano. Mio marito si addormentava, diceva: «Quello è come una culla!» Si muoveva con le onde del mare, perciò lui diceva: «È bello dormire.»

La sera c’era un’orghestra di quattro o cingue giovani che suonavano e si ballava. La domenica si andava a messa, c’era pure una chiesetta, aria contizionata, due piscine.

Arrivammo a Genova, stettimo fermi diverse ore, portai i miei tre figli camminando. Vicino al porto c’erano due navicelle andiche che erano le navi di Cristoforo Colombo quando andò a scoprire l’America. A me pareva che non poteva essere possibile.

Arrivò l’ora che ci imbarcarono di nuovo, dovevamo arrivare a Napoli. Quella ultima notte la passammo davvero brutta, non potemmo neanche mangiare, i piatti da sopra la tavola cadevano, era come un terremoto. Mio marito mi disse: «Se sapevo ce tornavamo in treno!» In tutto il viaggio non ci era passato mai, il mare fu sembre calmo. Ce ne andammo nella nostra cabina, ci cullavamo anche troppo.

Dopo una notte d’inferno arrivammo a Napoli. Ci vennero a prendere il padre e un fratello di mio marito con due macchine e un’ape per le valigie e i bauli. Ci salutammo e partimmo per il nostro paese, sta a diversi chilometri.

La famiglia di mio marito ci fecero trovare un bel pranzo con macchieroni al forno e tante altre cosette, che poi quando uno viene da un viaggio quello che vorrebbe è solo riposare. Noi arrivammo prima di quel povero cristo del fitanzato di mia nipote con l’ape, il povero andava carico doveva andare più piano. Il mangiare era pronto, dovevamo aspettare, sembrava brutto, si chiaccherava. I miei figli spaesati poco capivano, con facce tristi, avevano lasciato sorelle, amici e le sue abitudini là in Argentina. Dopo abbastanza tembo arrivò l’ape. Ingomingiammo a mangiare, i macchieroni si erano fatti un po’ secchi, che volevi fare?, questo non fu broblema.

Terminammo, un altro viaggetto di pochi chilometri e arrivammo alla casa dove dovevamo dormire. Ci stavano aspettando mia madre e le due sorelle e un fratello, gli altri due stavano emicrati a Torino. Siccome la casa di mia mamma ancora non si era liberata mio fratello che stava a Torino ci prestò la casa sua. Mia sorella ci aveva messo i suoi mobili, la stanza da letto lei se l’era cambiata. La casa erano due stanze sopra e una sotto, la cucina.

Tutti i parenti se ne andarono. Mia madre restò, si doveva stare con noi, in una stanza i miei tre figli con la nonna e in una stanza io e mio marito. Ci mettemmo a letto, eravamo stanchi però non ci sentivamo comodi, il letto era con le molle, erano vecchie e ci si affontava. Siccome in Argentina il letto lo tenevamo con tavole, era duro, noi ci trovavamo bene, abbiamo messo il materazzo a terra. Così abbiamo passata la prima notte in Italia. Giorni dopo abbiamo provveduto.

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