I Ricordi di zia Maria
capitolo 23
Parlo un poco come erano i miei genitori. Mio padre un uomo tranguillo faceva tutte le cose con calma, a suoi figli non li scridava quasi mai, c’era mia madre che lo faceva per lui, bastava, mentre mia madre era abbastanza nervosa, sarà che quando era ragazza aveva tenuto un fitanzato prima di mio padre, suo vicino di casa, quando andò militare prese una malattia e morì, si diceva che da allora prese un poco di esaurimento che l’accombagnò per tutta la sua vita. Era una bella ragazza, non passò inosservata a mio padre che pochi mesi dopo che gli era morto il primo fitanzato mio padre se ne innamorò e in pochi mesi si sposarono, formando la sua famiglia. A quei tembi la famiglia era d’obblico e continuava per tutta la vita, non esistevano divorzi.
Mia madre con la sua nervatura molte volte quando qualcosa non andava per il verso giusto bestemmiava e tante volte si bisticciava con il Patreterno. Per esembio nella casa di lusso che quel patrone aveva fatto fare su quella collina non c’era il forno per cuocere il pane. Uno dei miei fratelli era un poco ingegnoso, a pochi metri davanti alla porta della cucina c’era un’aiola con una pianta di biancospini fatta un poco alta, mio fratello ci levò la pianta e ci costruì un fornetto, ci andavano sei o sette pezzi di pane. Mia madre doveva fare il pane quasi due volte la settimana, ci si può figurare era fuori, quando pioveva, quando tirava vento, d’inverno, il pane si doveva infornare uguale. Mi ricordo si metteva in testa un sacco fatto a cappuccio, il pane si doveva cuocere, e quanto si bisticciava con Dio! Mi ricordo diceva: «Gesucrì a do stai? Scendi che ti devo prendere per la tua barba!» Nel suo penziero c’era che Gesucristo doveva far fare tembo buono perché lei stava infornando il pane. Questo era il modo suo di bisticciare con Dio.
Era raro vedere mia madre sorridere. La sera d’inverno ci mettevamo tutti vicino al nostro camino con i nostri genitori, con un fuoco non tanto grante. Mio padre molte volte ci raccontava qualcosa, mia madre sembre con un muso lungo, diceva: «Come sta frisco!» Passavamo poche ore in questo modo, con cantela a olio, ancora non tenevamo la luce elettrica. Ci andavamo a dormire, mia sorella più piccola se la mettevano in mezzo a loro, io e mia sorella in un’altra stanza.
Quanto faceva freddo!, quelle stanze erano come fricorifico, con poche coperte non ce la passavamo tanto bene che diciamo i miei genitori ci chiamavano dalla sua stanza dicendoci: «Venite a dormire con noi.» Noi di corsa andavamo a dormire ai piedi, così si stava più caldi, però a noi non ci veniva il sonno, pure perché si andava a letto troppo presto. Io e mia sorella ricordo ingomingiavamo a ridere, così, per niente, per passare un poco di tembo per scherzo, però piano piano ridevamo, davvero. I miei genitori ci richiamavano dicendoci: «La volete finire?» Loro stavano stanchi, certamente, avevano lavorato durante il giorno.
Che tembi, non ci si può credere però è la verità. Con tutta questa vita sacrificata ci si accontentava, non conoscento altro eravamo felici così.
Il moto di mia madre di chiamarci era quanto eravamo piccoli «ninnè» o «ninnì», quando diventammo granti «vagliò» o «vagliona», quanto stava un poco calma, se no ci chiamava con diversi nomi a modo suo, mai col nostro nome però. È stata una brava madre, ci ha saputo tenere sazi e puliti, ci ha mandato tutti a scuola, senza mai venire a parlare con la maestra per sapere come andavamo a scuola, però tutte le mattine ci svegliava e ci mandava a scuola.